Grazie alla nanobionica le coltivazioni potrebbero inviarci degli avvisi utili
Al MIT di Boston continua la ricerca sulla nanobionica applicata ai vegetali. Le piante “luminose” e gli spinaci “intelligenti” sono già realtà.
E se fossero le piante stesse a darci informazioni sul loro stato di salute? Ok certo, lo fanno giàì, ad esempio cambiando aspetto quando sono colpite da una malattia. Spesso, tuttavia, i segnali arrivano troppo tardi per capire la causa del loro male e salvarle. E se questo capita in una coltivazione agricola, il rischio è di perdere il raccolto.
Con la nanobionica vegetale, tecnologia che permette di inserire dei sensori microscopici al loro interno, le piante potrebbero essere in grado di trasmetterci delle notifiche quasi in tempo reale sulle loro condizioni. Con la possibilità di prevenire attacchi di parassiti, contaminazioni del suolo o le conseguenze dei cambiamenti climatici sulla loro crescita.
La nanobionica vegetale è un nuovo campo in impetuoso sviluppo che punta a modificare le piante con l’uso delle nanotecnologie, aggiungendo loro caratteristiche nuove o aumentando quelle già presenti.
Gli spinaci “intelligenti”
Tutto questo è già in fase di sviluppo al Massachusetts Institute of Technology (MIT) di Boston. Qui, i ricercatori specializzati hanno già messo a punto una versione “intelligente” degli spinaci. Le nanoparticelle inserite all’interno della pianta per darle la capacità di comunicare sono 50 mila volte più piccoli dello spessore di umano. “Abbiamo cominciato facendoci una domanda: possiamo dare alle piante viventi alcune delle funzioni che l’uomo ottiene fabbricando dispositivi fatti di plastica e circuiti stampati che poi finiscono nelle discariche?”, ha spiegato Michael Strano, professore di ingegneria chimica al MIT, a Fast Company.
I sensori convenzionali usati in agricoltura di solito sono costosi. Le aziende agricole più grandi e all’avanguardia a volte usano i droni per effettuare rilievi iperspettrali o analizzano le immagini satellitari. La nanobiotica vegetale, invece, potrebbe rivelarsi qualcosa di economicamente accessibile a qualunque agricoltore. Sarebbe necessario solo un dispositivo in grado di leggere i segnali inviati dalle piante.
Su questi, non ci sono dettagli. “Stiamo creando piante che praticamente sono collegate a internet”, ha aggiunto Strano. Non saranno versioni commestibili. L’idea è affiancarle a quelle destinate al consumo o comunque al settore alimentare per permetterle di analizzare lo stesso terreno su cui hanno messo radici. “Così possono vivere nello stesso ambiente e poi rilevare e trasdurre tutti questi segnali, convertendoli in forma elettronica”.
Dalle mine alla siccità: cosa possono dirci
Il primo progetto a usare le nanoparticelle nelle piante puntava ad aiutare nella ricerca delle mine abbandonante terreni. Le piante assorbono in continuazione acqua di falda. Con questa, succhiano anche le diverse sostanze presenti nel terreno. Rendendole intelligenti, possono rilevare gli elementi chimici esplosivi. Una volta individuato, le foglie trasmettono un segnale che, letto da una telecamera a infrarossi, fa partire un’allerta via email.
Ma non è l’unica possibile applicazione per la nanobiotica vegetale. Potrebbero registrare anche altri fattori di stress: arsenico nel suolo, il primo attacco di un insetto dannoso, livelli di calore estremo. E, in ogni caso, inviare una notifica diversa.
Infine, non meno importante, potrebbero aiutare gli scienziati a sviluppare nuove varietà di coltivazioni più resistenti agli effetti dei cambiamenti climatici, come la siccità. La tecnologia “può sfruttare segnali a cui non abbiamo mai avuto accesso in precedenza”, ha detto Strano. “È un linguaggio veramente delicato quello delle piante che stiamo iniziando solo ora a imparare”.
Le piante capaci di illuminare
Sempre al MIT, utilizzando nanoparticelle incorporate nelle foglie delle piante, i ricercatori hanno creato una pianta che emette luce che può essere caricata da un LED. Per fare in modo che queste piante emettano luce, sono state utilizzate nanoparticelle specializzate: un LED ha caricato le particelle incorporate nelle foglie della pianta: dieci secondi di carica LED e le piante restano luminose per diversi minuti.
Obiettivo del team di ricerca è, però, andare oltre e sviluppare piante in grado di assorbire la luce, immagazzinarla e riemetterla lentamente. Se perfezionato, questo metodo potrebbe consentire all’illuminazione vegetale di diventare una realtà in case e aziende di tutto il mondo.
Piante luminose: come è possibile?
Gli scienziati hanno introdotto enzimi come la luciferasi, che si trova nelle lucciole, nelle nanoparticelle. La bellezza di questo approccio è che gli scienziati possono mescolare e abbinare nanoparticelle funzionali e poi inserirle in piante viventi, “testando” e ottimizzando questi autentici superpoteri. È un campo molto interessante chiamato “nanobionica vegetale”. Usando nanoparticelle che immagazzinano e rilasciano gradualmente luce, gli ingegneri creano piante che emettono luce che possono essere caricate ripetutamente.
Per creare il loro “condensatore di luce”, i ricercatori hanno deciso di utilizzare un tipo di materiale, il fosforo. Il fosforo può assorbire la luce visibile o ultravioletta e poi rilasciarla lentamente sotto forma di bagliore fosforescente. I ricercatori hanno utilizzato come fosforo un composto chiamato alluminato di stronzio, che può essere formato in nanoparticelle. Prima di incorporarlo nelle piante, per proteggerle, i ricercatori hanno rivestito le particelle di silice, che impedisce sofferenza alla pianta.
Il team del MIT ha lavorato al progetto per diversi anni. Già nel 2017 erano state ottenute le prime piante con delle caratteristiche luminose. Nel nuovo studio, l’obiettivo era estendere la durata della luce e renderla più luminosa. Gli scienziati hanno avuto l’idea di utilizzare un condensatore, che è una parte di un circuito elettrico in grado di immagazzinare elettricità e rilasciarla quando necessario. Nel caso di piante incandescenti, un condensatore di luce può essere utilizzato per immagazzinare la luce sotto forma di fotoni, per poi rilasciarla gradualmente nel tempo.
La ricerca è stata pubblicata su Science Advances.
fonti: Euronews I MIT News I Ultimavoce
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