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Videogame terapeutici e sociali, l’intervista a Fabio Viola

IL RUOLO SOCIALE E TERAPEUTICO DEL VIDEOGAME- IL DIALOGO CON FABIO VIOLA

Leggi l’intervista a Fabio Viola per esplorare il potenziale dei videogame in ambito sociale e terapeutico, scoprire alcune storie di successo e annotare alcuni consigli preziosi per il futuro utilizzo dei videogame!

 

I videogiochi hanno assunto un ruolo sempre più rilevante nel nostro tempo. Hanno valicato i confini dell’entertainment, abitando nuovi spazi in grado di generare nuovo valore per l’essere umano. Oggi, i videogame vengono impiegati nei settori più impensabili fino a qualche decennio fa, inclusa la dimensione sociale e terapeutica. Questa evoluzione è la testimonianza diretta della loro capacità di incidere positivamente sulle nostre vite, sulla nostra salute mentale, sulle relazioni interpersonali e persino sulla nostra capacità di apprendimento.

 

La connettività digitale è, infatti, alla base delle nostre interazioni quotidiane e i videogame sono stati in grado di generare nuovi luoghi virtuali dove le persone possono connettersi, collaborare, giocare e competere. Attraverso i giochi online, per esempio, le comunità di giocatori si sono trasformate in molti casi in veri e propri luoghi di aggregazione sociale, consentendo a ciascun individuo di sviluppare relazioni significative, condividere esperienze e, in alcuni casi, combattere l’isolamento sociale. 

 

Inoltre, i videogiochi hanno dimostrato di avere un potenziale terapeutico notevole rivelandosi, in alcuni casi, delle zone comfort sicure per pazienti di ogni età, ne sono un esempio Super Poteri di Brave Portions, del quale parleremo dopo, e StomyCraft, progetto in esposizione a Maker Faire Rome 2023. Molte ricerche hanno evidenziato come determinati giochi possano aiutare a gestire lo stress o l’ansia: l’immersione in mondi virtuali può offrire un’occasione per staccare dalla realtà quotidiana e fornire una via di fuga emotiva. Nell’era digitale è, dunque, fondamentale considerare tutte le funzioni di uno strumento che può rivelarsi benefico.

 

Ne abbiamo parlato con Fabio Viola, uno dei più rinomati game designer a livello internazionale, futuro ospite all’Opening Conference di Maker Faire Rome 2023, esplorando il potenziale dei videogame in ambito sociale e terapeutico, immergendoci in alcune storie di successo e scoprendo alcuni suggerimenti preziosi per il futuro.

Secondo te, quali sono le principali applicazioni del videogioco in ambito sociale?

Sono tante. Il videogioco, e poi quella che spesso viene chiamata gamification o approccio playful, funziona così: “io dimentico, mostrami un ricordo, coinvolgimi ed io imparo” ovviamente non è mia, forse Benjamin Franklin o qualcun altro ancora prima. Insomma, cosa avevano capito in un’epoca pre-videogiochi o comunque pretecnologico – digitale?  Che se io racconto qualcosa, domani chi mi ascolta ricorderà il 10% di quanto detto, se io racconto e mostro qualcosa, domani probabilmente all’ascoltatore resterà il 20% del contenuto, ma se racconto, mostro e immergo l’interlocutore nel contenuto, facendolo vivere a livello esperienziale, di quel contenuto o pillola formativa probabilmente domani ricorderà il 40%. Ed è questo il motivo per il quale il videogioco è entrato da tempo sia nella didattica scolastica curricolare sia in quella aziendale di formazione, perché un buon videogioco altro non è che un luogo in cui le persone sono chiamate a esercitare potere e scelte. Questo che vuol dire che se uno studente, o chiunque esso sia, prende delle decisioni, è immerso nell’esperienza perché si sente responsabilizzato.

Il videogioco ti permette di verificare la tua teoria o la tua scelta in tempo reale o quasi. Ad esempio, se dovessi trasferire a qualcuno l’importanza di non buttare le cartacce a terra, in natura non potresti simulare il danno che questo genera, dovresti piuttosto attendere 100 o 300 anni a seconda del materiale per vedere gli effetti negativi che questo gesto avrà. In un videogioco, invece, è immediatamente percepibile e questo vale per la matematica, per l’educazione fisica, per la geografia ecc.

Questo ruolo del videogame che descrivi, è valido anche in ambito terapeutico? E in che modo?

In ambito terapeutico sono tanti già i progetti ed io ho lavorato a qualcuno. In generale che cosa sta accadendo in questo settore?  Succede che 3 o 4 anni fa, viene realizzato EndeavorRx, un prodotto che cura la sindrome da deficit dell’attenzione.  Perché è stato una pietra miliare? Perché per la prima volta al mondo un videogioco, dopo aver superato i trial tipici di un farmaco chimico, è stato approvato dalla Food and Drug Administration americana, che è il corrispettivo della nostra AIFA, per diventare un farmaco a tutti gli effetti. Quel gioco, quindi, non lo trovi sugli scaffali dei negozi e non lo scarichi quando vuoi, ma è accessibile “dietro prescrizione medica”. Si tratta di un videogioco che cura effettivamente la sindrome da deficit dell’attenzione mentre giochi. 

Da qui è partito un filone che viene chiamato del “farmaco digitale”, che riguarda videogiochi ma anche altre tipologie di tecnologie o applicazioni in virtual reality, alcune non sono neanche strettamente dei videogiochi.  In Europa si sta lavorando molto sul loro utilizzo in fasi pre-screening di malattie neurodegenerative, per il rispetto di protocolli medici, per fare riabilitazione fisica o neuronale. Possono essere impiegati per fare comunicazione o sensibilizzazione. Ho lavorato con dei consorzi ospedalieri internazionali su un videogioco legato alla leucemia e la nuova Car-T: mentre tu giochi hai un diario che mostra effettivamente un vero diario clinico di una paziente. In quel caso, ovviamente, non serve a curare perché non si può con il farmaco digitale, ma serviva a far comprendere che esistono delle nuove terapie. Inoltre, si è rivelato uno strumento essenziale per empatizzare con i pazienti.  Ci sono quindi vari usi in atto e tanti in crescita. Le Big Pharma si stanno unendo alle case di produzione di videogiochi per lavorare su questo aspetto educativo e di ricerca.

Possiamo dire, quindi, che il videogioco riesce a creare una comfort zone per il paziente, un luogo di conforto vero e proprio?

Sì, ci sono tanti progetti di questo tipo.  Faccio un esempio italiano sulla quale avevo lavorato.  Il progetto si chiama “Super Poteri” di Brave Potions e consiste sostanzialmente in un kit che veniva acquistato da ospedali, studi medici, dentisti ecc.  Il kit è composto da una parte digitale e da una analogica e l’obiettivo è far percepire come meno paurose le esperienze mediche ai bambini, come entrare in una tac o andare a farsi curare un dente. Gli episodi di resistenza hanno degli impatti reali sociosanitari. Un bambino che ha paura di una tac va sedato. Questo processo prolungherà di conseguenza il tempo di permanenza nella fase di preparazione, generando delle riverberanze economiche. Ma come funziona Super Poteri? Si scarica l’app, si sceglie quale eroe essere e si comincia a giocare digitalmente.

Quando il bambino si recherà nello studio medico insieme alla famiglia, il dottore – che ha accesso ad un database- saprà che tipo di eroe ha davanti, facciamo l’esempio di un Ninja. Sulla base del personaggio in questione, predisporrà appositamente dei materiali a tema intorno alla cannula, alla siringa, alla flebo o la tac. Il bambino entrerà dunque dentro lo storytelling e, non appena terminata la cura, riceverà una carta a tema con QR Code, un codice alfanumerico che se inserito sull’app farà sbloccare al personaggio dei poteri aggiuntivi, o l’esperienza digitale continua, al punto da portarlo a voler tornare perché l’unico modo per andare avanti nella storia è recarsi presso gli studi medici. 

Al giorno d’oggi, però, la tecnologia viene percepita in modi molto diversi e uno di questi è l’estrema preoccupazione. Come rassicureresti un genitore troppo apprensivo? Secondo te quali sono i rischi del gaming e quali i vantaggi?

Una domanda legittima perché è ricorrente, quindi vuol dire che c’è una percezione comune sulla quale bisogna ancora lavorare. I rischi ci sono e non riguardano solo i videogiochi, ma tutto ciò che è immagine interattiva. Videogiochi, social network e altre tipologie di installazioni che presuppongono un ruolo attivo della persona. In questo contesto, ci sono delle differenze, ovviamente, tra l’essere esposto ad un libro o ad un film rispetto al videogioco e i social network. Senza entrare troppo nel tecnico, altera molto di più l’emozione tutto ciò che prevede un input e che genera poi un output molto variabile che ci trasporta in un contesto sociale.  I videogiochi oggi sono tutti esperienze sociali così come lo sono i social network. Non esiste più il gioco come negli anni ’80, che era già molto più vicino ad un libro piuttosto che ad un film pur essendo interattivo. Oggi quasi tutti i giochi prevedono una cooperazione, una competizione con altre persone in tempo reale: vedi Fortnite, Minecraft, Roblox, Call of Duty.  Tutti i giochi che possono dare alterazioni dello stato d’animo.

A riguardo ci sono studi ancora in corso, altri sono già stati pubblicati, però è un fenomeno molto recente, quello che si sa è che sono uscite delle prescrizioni che i videogiochi, così come tutti i linguaggi interattivi, dovrebbero prevedere delle guidelines di utilizzo, soprattutto verso tutti coloro i quali non hanno ancora formato propriamente le proprie mappe emotive e cognitive, cioè le persone più piccole. Nel momento in cui ancora non hai ben formato le mappe del vivere, i videogiochi così – come altri linguaggi interattivi- possono alterarle. Per esempio, l’ordine degli psicologi americano ha delle linee guida molto stringenti sull’età di accesso ai videogiochi, agli smartphone e tablet, sulla quantità di esposizione che si può avere al giorno e gli orari di somministrazione.

Questa è la parte di “warning” da tenere in considerazione. Quello che invece si sa già da numerosi studi, è che in realtà, quando ben utilizzati e introdotti nella vita di una persona, i videogiochi possono stimolare tutta una serie di aree cerebrali, migliorare il coordinamento occhio-corpo, possono stimolare il trasferimento di competenze, la partecipazione attiva, la resilienza ma ormai questo è quello che i videogiochi hanno in comune con qualsiasi altra tipologia di gioco. Il gioco, di solito, è il modo migliore per trasferire dei valori. Se ci pensiamo quando si è piccoli (se è vero che da una parte bisogna stare attenti) il modo in cui impariamo a stare al mondo è il gioco: toccando, esplorando, simulando, fingendo di essere cowboy piuttosto che astronauti, imparando le regole attraverso il gioco. I giochi che non sono altro che una composizione di regole e, per questo motivo, portano con sé anche, certamente, tutta una serie di altri strumenti positivi.

Secondo te avrebbe senso educare il pubblico ad utilizzare questo mezzo che diventerà ancora più immersivo?

C’è il grande tema dell’alfabetizzazione ludica ai videogiochi. È ovvio che se un bambino è piccolo e non ha quindi ancora il grado di discernimento, diventa fondamentale il ruolo della famiglia e/o della scuola o della comunità educante in generale.  Ma che cosa è accaduto soprattutto coi videogiochi, che sono un linguaggio apparentemente nuovo? È successo che molti genitori, non conoscendolo, ne hanno paura e quindi non sono in grado di guidare il bambino alla scelta giusta. Questo, però, è un problema puramente temporale che si è già verificato con l’insorgenza del cinema alla fine dell’Ottocento. Basterebbe vedere cosa dicevano coloro i quali lavoravano in teatro – o sono cresciuti con il teatro come forma primaria di immagine in movimento – del cinema. Ad un certo punto della storia arriva il cinema e Pirandello e altri lo descrivono in maniera brutale, assolutamente negativa, parlando di impatti probabilmente dannosi sulle nostre nuove generazioni. Lo stesso accadde con il fumetto, negli anni ’70, prima ancora all’inizio dell’Ottocento con l’arrivo della fotografia che fece scatenare i pittori. Che cosa voglio dire? Che è un’alternanza. Semplicemente, all’inizio la nuova tecnologia, che viene percepita solo come tale e non come un linguaggio, crea delle difficoltà.

Quello che però va fatto è introdurre dei corsi di conoscenza dei videogiochi a scuola e quindi, ad esempio, far sì che anche la comunità educante sappia indirizzare lo studente ed introiettare il gioco all’interno della pratica curriculare. Ci sono dei giochi, come ad esempio War of Mine, che sono libro obbligatorio di testo in alcune nazioni perché è un gioco che ti porta a vivere una guerra dal punto di vista del cittadino, spingendoti a prendere delle scelte quando ti trovi in mezzo a una guerra. War of Mine è curriculare per Educazione Civica e per Storia. Questo è un esempio, ma ce ne sono tanti altri. È ovvio che questo diventerà realtà diffusa, ad esempio, quando anche le biblioteche inizieranno ad inserire sui loro scaffali – e non solo in aree specifiche a parte – i videogiochi rendendo possibile trovare su un unico scaffale a tema “Seconda Guerra Mondiale” un libro, un film, una statuetta e un videogioco, perché tutti concorrono a raccontare, con le proprie tecnicalità ed il proprio linguaggio, la medesima cosa.

Fabio Viola sarà tra gli speaker dell’Opening Conference di Maker Faire Rome 2023, che si svolgerà il 19 ottobre alle 17.30 presso il Gazometro Ostiense, ad ingresso gratuito.

 


 

Maker Faire Rome – The European Edition, promossa dalla Camera di Commercio di Roma, si impegna fin dalla sua prima edizione a rendere l’innovazione accessibile e fruibile, offrendo contenuti e informazioni in un blog sempre aggiornato e ricco di opportunità per curiosi, maker, PMI e aziende che vogliono arricchire le proprie conoscenze ed espandere la propria attività, in Italia e all’estero.

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